La marcia della morte del deportato Libero Baldanza
Liborio Baldanza, Geraci Siculo 2 agosto 1899 – Mauthausen 3 aprile 1945,
operaio, antifascista.
La marcia della morte
” Sul finire del mese di febbraio 1945 i prigionieri di Hinterbruhl avvertono che tra i tedeschi qualcosa non va più come prima. Le voci che penetrano nel lager sono rare, ma nessuna riferisce di successi militari delle truppe germaniche. In officina, durante i controlli delle lavorazioni, alcun idetenuti sentono le preoccupate e clandestine esternazioni di capireparto “civili” della Heinkel. Sono frasi interrotte e sguardi preoccupati che risollevano gli animi dei prigionieri: avvertono che sta succedendo qualcosa di grosso, che la libertà è vicina.
Continuano a lavorare freneticamente, con turni che si alternano settimanalmente dalle 6 alle 18 e dalle 18 alle 6, ma quegli armamenti che costruiscono, con o senza sabotaggi, non riusciranno a capovolgere gli esiti della guerra. Chiusi per 12 ore nelle officine sotterranee e poi nelle baracche-dormitorio, molti non avvertono la fine dell’inverno; dentro la vecchia miniera le temperature si mantengono costanti, tra 9° e 10°. I compagni che lavorano all’esterno, esposti alle intemperie e agli sbalzi termici, soffronoinvece terribilmente.
Nel lager di Hinterbruhl giornalmente si muore per fatica, per sopraggiunte malattie, per complicazioni di quelle esistenti, per fame, per le violenze mirate dei kapò. La zuppa che a pranzo passa l’azienda Heinkel e quel poco che viene distribuito al campo la sera riescono a sostenere minimamente le necessità dei prigionieri rispetto all’enorme dispendio di energie. A Hinterbruhl si muore con dignità ma si muore, e per i poveri corpi finiti nel tritacarne di questo lager valgono le struggenti parole di E. Maruffi «morivano bene i miei compagni, senza maledire, senza umiliarsi. È importante che la gente lo sappia».
Baldanza a Hinterbruhl Seegrotte è recluso 9 mesi, dal luglio 1944 al marzo 1945. Un inverno lungo, umido, piovoso che continua anche a marzo. Per tutto il tempo della deportazione accusa disturbi allo stomaco, di cui si lamentava già prima dell’arresto. Affronta la reclusione e la deportazione in condizioni fisiche problematiche, a cui si aggiunge il fattore “età”, 45 anni sono tanti per avere qualche possibilità di sopravvivere. Nella seconda metà di marzo, per il peggioramento dei problemi di stomaco, chiede visita al reviér, l’infermeria, e viene ricoverato. Tutti i prigionieri sanno che pochi escono coi propri piedi dal revièr. Possiamo immaginare perciò con quale stato d’animo Baldanza vada a ricoverarsi sapendo che tutti quelli che non sono più utili alla produzione di guerra vengono eliminati a seguito dell’ispezione delle SS. Nel revièr di Hinterbruhl lavora un gruppo di medici che si adoperano molto per i malati, usando ogni piccolo mezzo per salvarne il più possibile dalla catasta di cadaveri in attesa all’esterno dell’infermeria.
Baldanza viene subito messo a letto, nudo come tutti, in attesa che qualcosa accada. Il revièr, che dista 1 chilometro circa dalle gallerie-officine, è posto nelle grotte di Modling, località vicina a Vienna, da cui prende il nome. Vi lavorano il dottor Krakowski, medico polacco responsabile della struttura, e i medici francesi Maurice Maont, René Jouon, Andre Hubert, e il russo Vassili Yegoroff. L’alimentazione regolare, le discrete condizioni climatiche, la possibilità di riposare e dormire molte ore, l’assenza di maltrattamenti, la somministrazione di qualche farmaco, tutto questo riesce a volte a rimettere in forze i ricoverati. Anche Baldanza ha dei miglioramenti.
Il 31 marzo 1945 i degenti sono più di 80. Sappiamo che, insieme a Libero, si trovano Ghianda Francesco, operaio Breda e Beretta Aldo, operaio Falck, arrestato la medesima notte e che, con Baldanza, ha condiviso le medesime località di prigionia. In revièr giungono notizie dell’imminente arrivo dell’Armata Rossa, preannunciata dal rombo cupo di continui cannoneggiamenti. Campo e revièr sono in fermento, i kapò nervosi e frenetici più di prima; le SS non manifestano l’usuale glacialità e sicurezza.
Il 31 marzo dal Comando di Mauthausen giunge l’ordine di evacuazione totale e rientro. «Il tenente Anton Streitweiser, comandante di Hinterbruhl/Modling, ordina per l’indomani la partenza, l’eliminazione dei malati ricoverati in infermeria e di quelli al campo incapaci di camminare», la distruzione dei documenti che attestano la presenza di prigionieri. Non saranno distribuiti pasti. I 200 chilometri di distanza saranno percorsi a marce forzate e per strade secondarie, per non intralciare il transito dei soldati in ritirata dal fronte russo. Tutti i sottocampi di Mauthausen, dislocati in Austria, ricevono il medesimo ordine di evacuazione e rientro. Dall’1 aprile 1945 migliaia di deportati si mettono in cammino verso Mauthausen.
Sono chiamate Marce della Morte per l’enorme numero di cadaveri rimasti lungo le strade e nei campi. Tale iniziativa non è né improvvisata né casuale, ma lucidamente pianificata e funzionale all’eliminazione rapida, economica e silente di migliaia di prigionieri; in tal modo i tempi di sterminio saranno minori.
«Il dottor Krakowski riceve l’ordine di uccidere gli 80 pazienti mediante iniezioni di benzene al cuore, ma si rifiuta e lo stesso fanno i colleghi, consapevoli che potrebbero essere fucilati sul posto. Nell’attesa delle decisioni del Comando, i quattro sanitari dimettono rapidamente 30 pazienti capaci di reggersi in piedi. La Direzione incarica della spietata esecuzione i kapò George Goessel e Kaul Sasko, entrambi delinquenti “comuni”. Vengono assassinati così 52 ricoverati che muoiono lentamente fra atroci sofferenze. Il dottor Youon è incaricato di registrarne i nomi»; i corpi vengono poi gettati in una fossa comune. Tra loro «ci sono Aldo Beretta tornitore meccanico della Falck di Sesto San Giovanni e Francesco Ghianda aiuto fucinatore della Breda II», attivi compagni durante gli scioperi del marzo 1944.
Baldanza riesce a salvarsi fra i 30 dimessi, uscendo dal revièr con addosso solo un camice medico fornito segretamente dai sanitari, e aiutato poi da compatrioti a lui vicini, non essendo ancora del tutto stabile sulle gambe.
Affronta la Marcia fortemente debilitato e non ancora del tutto guarito e a questo si aggiungeranno, lungo il tragitto, le proibitive condizioni atmosferiche di fine inverno, la mancanza di acqua e di cibo, il lunghissimo percorso di 220 chilometri. Libero fugge dal revièr consapevole dell’assassinio che subiranno da lì a poco i vicini di letto e compagni a lui sconosciuti. Lager ed SS non sono riusciti a estirpare pietà e rabbia dal suo animo e da quello della maggioranza dei “politici”.
Al campo gli danno il benvenuto amici e compagni, ancora abbastanza numeroso è il gruppo di Sesto San Giovanni: Lazzarini, Rossi, Signorelli, Visioli, Vigna, Taccioli e altri. Sentirsi chiamare per nome, abbracciarsi, raccontarsi, avvertire che la liberazione è vicina, tutto questo gli dà forza e volontà per mettersi in cammino. Nessuno sa dove sono diretti e quanta strada dovranno fare. Per tutta la giornata del 31 marzo il campo è in agitazione per le numerose urgenze della partenza. La quiete e l’ordine teutonici, che da mesi hanno silenziato le cattiverie più indicibili del mondo, sono sostituiti da ordini concitati, mutevoli decisioni, spostamenti veloci di SS da un capo all’altro del campo, urla, parlare concitato. I kapò continuano a usare il loro alfabeto manuale, comprensibile da ogni nazionalità.
Giunge infine l’alba dell’1 aprile: domenica di Pasqua. Pioviggina. I partenti già prima delle 6 vengono schierati nella piazza dell’appello per la conta: sono 1884. Alle 7, suddivisi in 3 colonne, si mettono in marcia da Hinterbruhl/Modling a Mauthausen. Alla fine di ciascuna colonna vigila una squadra di SS e una di seppellitori. Per le SS di scorta sono solamente circa due migliaia di numeri che camminano, molti dei quali non arriveranno a destinazione. Contrariamente però alle convinzioni granitiche del soldato tedesco, ogni prigioniero pensa di ultimare la Marcia e tornare a casa, libero. Questi lavoratori, in maggioranza italiani, che circondano Baldanza, non sono stati piegati, come invece avevano pianificato i nazisti; hanno conservato una riserva di energia per uscire da quell’inferno.
Ogni prigioniero si mette in cammino munito di 1 coperta e 1 pane. I tre amici camminano sempre insieme, sui vecchi zoccoli di legno aperti posteriormente, nei terreni fangosi fanno doppia fatica, molti se li levano per non perderli. Tutti sono fortemente debilitati per i lunghi e faticosi mesi di lavoro forzato e per il cibo insufficiente. «Lungo il cammino molti si liberano del peso della coperta e dopo 6 ore viene mangiata l’unica pagnotta distribuita. Chi l’ha fatto guarda poi gli altri. Verso sera fanno sosta per la notte su un prato, sotto la pioggia battente, in località Altenmarkt – an der Triesting». La distanza percorsa è di 28 km. Risulta un morto. Non è distribuita cena.
Il 2 aprile la sveglia viene data alle 4 e 30. Niente colazione. Baldanza è molto provato dal giorno precedente e, come gli altri, è zuppo di rugiada notturna. Non mangia da 3 giorni, infatti il 31 marzo al revièr di Modling, non è arrivato cibo in conseguenza della decisione di uccidere tutti i ricoverati. «Al mattino alcuni non riescono ad alzarsi. Intervengono prontamente le SS e li abbattono. Viene fatto l’appello che si ripeterà mattina e sera. Cade pioggia mista a neve. Molti si ritrovano i piedi gonfi e, fra grandi dolori, riprendono la marcia. Sono i primi a crollare e ad essere finiti dalle SS».
La tappa è di 31 km, fino alla cittadina di Scheimuht (luogo inesistente, probabilmente si tratta della città di Schwarzenbach). Vi giungono che già è sera inoltrata e pernottano in aperta campagna. All’appello risultano 45 morti, tutti finiti dai soldati di scorta.
Chi barcolla e si appoggia al vicino, chi si siede un istante o si accascia sfinito, è raggiunto dalle SS che marciano in coda e viene abbattuto. Due colpi di pistola alla testa o una breve raffica di mitra ne certificano il sicuro decesso. Con diligenza il soldato strappa e conserva il braccialetto che riporta il numero di matricola del prigioniero, registrando la località approssimata del decesso e la data. Il tutto dovrà essere consegnato poi alla Direzione di Mauthausen. Interviene la squadra dei seppellitori che, lungo il bordo della strada, scava velocemente una fossa non profonda dove infila i poveri resti coprendoli con qualche palata di terra. I becchini, detenuti anch’essi, fanno in fretta perché poco più avanti c’è un altro cadavere. Chi di loro indugia riceve il medesimo trattamento da parte delle SS di scorta.
Già dal giorno precedente «molti prigionieri si cibano di erbe che strappano ai lati della strada». Libero cammina taciturno e a fatica, risucchiato dalla scia di quelli che lo precedono. I pochi pensieri che riesce a mantenere lucidi sono verosimilmente per la moglie Anna e il piccolo Dimitri. Mario Taccioli lo esorta a tener duro, che ce la faranno.
Il 3 aprile, martedì, sono svegliati che è ancora buio. Baldanza fa fatica a tirarsi su dal fango dove ha dormito, Amleto Rossi pare stia pian piano venendo meno. Alle 5 e 30 le lunghe colonne si rimettono in cammino. Non viene distribuita colazione, né acqua. Per Baldanza è il quarto giorno senza cibo. Procedono fino alla località di Kirchberg am der Pielach; ancora altri 20 km. «Incrociano un’interminabile colonna di soldati tedeschi che vengono dal fronte russo. Hanno uniformi lacere e sporche, molti feriti. Nessuno canta. La popolazione li applaude, a noi urla di “banditi”, “sudiciume”, “maiali”, e ci schernisce per come siamo ridotti, molti ci lanciano pietre». Sono tanti quelli colpiti perché non hanno più la forza per scansarle. A sera pernottano al coperto, in una fattoria o dei magazzini abbandonati, in località Kirchberg am der Pielach. «Viene distribuita una zuppa di orzo». Nell’appello del 3 aprile mancano 54 uomini assassinati in fretta per strada. Il sonno e un’immensa stanchezza vincono subito coloro che sono ancora vivi, ma l’ultimo pensiero va ai molti e bravi compagni caduti, nel corso della giornata, in terra straniera, senza un segno di riconoscimento.
Il 4 aprile la conta viene fatta all’alba, sotto la pioggia che la sfinitezza non fa più avvertire. «È una marcia con infinita lentezza, la pioggia li flagella, l’unico cibo è costituito dalle erbe selvatiche. Durante il giorno sono innumerevoli i colpi di pistola-machine addosso ai compagni caduti». Tra loro rimane Amleto Rossi che Taccioli sprona fino all’ultimo. I boia in divisa eseguono il lavoro per l’anagrafe di Mauthausen mentre i becchini eseguono il loro che, con il passare dei giorni, si limita a poche palate di terra sparse sui cadaveri. Nella conta serale risultano 23 morti di cui 5 registrati a parte. I chilometri percorsi sono 31. Pernottano in località Scheibbs dove «in una casa in costruzione sono trovati mucchi di morti».
Il 5 aprile giovedì molti prigionieri sono al limite mentre «il conteggio all’appello si prolunga, sotto pioggia e neve. Le SS lo ripetono 3, 4, 5 volte, una decina di volte. Gli ufficiali discutono a lungo per capire perché risultano 5 “pezzi” in più rispetto al conteggio del giorno prima. Prendono la decisione. Uno di loro passa in modo marziale tra i prigionieri schierati in piedi da ore e ne indica 5: tu, tu, tu, ecc. Li fa uscire dalle fila e li mette a sedere per terra, risolvendo con 5 pallottole in testa il problema dei 5 “pezzi” in più». La squadra dei seppellitori completa il lavoro, mentre i prigionieri riprendono la Marcia.
A sera si accampano in località Sankt Leonard am Walde, dopo un percorso sotto la pioggia di 28 chilometri; i morti sono 15 di cui 2 registrati a parte. Viene distribuito quanto rimane della zuppa dei militari, ma la quantità è l’equivalente di una tazza da the.
Il 6 aprile la sveglia viene data molto prima dell’alba perché la tappa sarà di 40 chilometri. «Molti compagni muoiono durante la notte. Lungo la strada vediamo cadaveri con numeri di matricola diversi dai nostri. A sera ciò che rimane delle tre colonne si accampa in località Strengberg. I morti sono 42. Viene distribuita una zuppa bollente che ci rianima». I superstiti esausti si buttano nel prato a dormire, incuranti della pioggia.
Il 7 Aprile, sabato, la sveglia viene data più tardi. La tappa è di 10 km, da Strengberg a Sankt Valentin. Anche Taccioli sta per cedere e viene aiutato da due compagni. Smette di piovere. All’appello serale risultano 20 morti di cui 2 registrati a parte.
L’8 aprile, domenica, dopo una tappa di 19 chilometri, al pomeriggio giungono a Mauthausen. È concesso un breve riposo, distesi nell’Appel Platz, poi vengono mandati alle docce. A sera viene data una zuppa di rape e una fetta di pane, poi dormono nelle baracche di quarantena, per terra.
Sono arrivati a Mauthausen in 1624 su 1884 partenti. I morti complessivi sono stati 260 così suddivisi: 52 assassinati nell’infermeria di Modling e 204 durante la Marcia della Morte.
Baldanza Liborio non è tra coloro che varcano la Porta Mongola nella fortezza di Mauthausen e non rivede il Muro del Pianto dove, ad enormi ganci, venivano appesi, come quarti di bovino, i corpi maciullati dei prigionieri. Oggi il Muro è ricoperto di lapidi e foto commemorative di coloro che in quel lager hanno transitato e consumato l’ultimo tratto della loro vita. Baldanza non ce l’ha fatta e nemmeno Rossi Amleto. Taccioli è il solo, dei tre, che racconterà «dei campi della lenta morte».
Il 3 aprile 1945 Libero non tiene il passo e comincia a restare sempre più indietro. Taccioli e Rossi rallentano, non lo lasciano solo. Anche Rossi è molto affaticato. Sulle gambe malferme Libero ha lucidità mentale per comprendere che non tornerà da Anna e Dimitri, né riprenderà il lavoro con i compagni; comprende che il suo tempo sta per concludersi. Sottovoce, le ultime parole probabilmente sono per i suoi cari. Sui suoi ultimi istanti l’unico testimone è l’amico e compagno Taccioli.
Libero si accascia lentamente sul bordo della strada, una SS gli è subito addosso per eseguire il solito lavoro. Riferisce Taccioli «quante sofferenze e sevizie sopportate e quanti compagni caduti sotto la ferocia nazi-fascista.
Dal compagno di fede Libero Baldanza, caduto sotto i colpi di mitra lungo la strada da Modling a Mauthausen, al compagno moscovita Boris, quanti compagni perduti… A tutti questi martiri il nostro perenne ricordo».
Il soldato lo finisce con una rapida raffica di mitra, gli toglie la matricola 58683, poi lo spinge con un calcio nel fosso laterale. Viene assassinato tra Schwarzenbach e Kirchberg an der Pielach. Gli archivi ufficiali certificano che il decesso è avvenuto in “ località non nota tra Wien Hinterbruhl e Mauthausen” il 3 aprile 1945.
Baldanza muore libero. Nonostante la divisa da schiavo, la matricola, il lavoro da bestie, le costrizioni quotidiane, le sevizie, Liborio rimane un uomo libero. Il Regime fascista e il Male assoluto nazista non sono riusciti a piegarne la mente e lo spirito, a spezzare e annullare i principi ispiratori della sua vita e della sua militanza politica. Il suo corpo, maltrattato e sfruttato, rimane nel fosso, un mucchietto misero di stracci zebrati, semisepolto nel fango, ma le idee no. Non restano nel fosso perché sono idee irrequiete.
Appropriate le parole di Bruno Zerbinati «io sono stato arrestato e con me tanti altri non per idee politiche, non perché fossimo comunisti o socialisti o altro, ma perché volevamo la libertà, eravamo stufi della guerra, anche della miseria». In queste poche e semplici parole dell’operaio-tornitore della Breda III è racchiusa la vicenda concentrazionaria di Libero Baldanza.
Libertà, pace, riscatto dalla miseria erano i principali punti programmatici dei grandi scioperi dell’ottobre 1943 e marzo 1944, dove Baldanza si è posto in prima linea, consapevole delle conseguenze, come poi è stato. Baldanza è assassinato in terra straniera perché si è opposto al potere illegittimo del Regime fascista e dell’occupante nazista ma, particolare ancora più grave, perché è un elemento “irrecuperabile”, così sono considerate alcune categorie di oppositori politici. Agli irrecuperabili è destinato Mauthausen che, nella mente degli ideatori, equivale a lavori durissimi, fame, percosse di ogni tipo, sevizie, istigazione al suicidio, esecuzioni pubbliche, malattie, freddo, terrore, spersonalizzazione, annientamento mentale. A tutto questo è stato sottoposto Libero Baldanza, per essere alla fine eliminato come uno “stuck”, un pezzo non più utilizzabile. “
(testo tratto dal libro di Giuseppe Vetri, Se tutti vanno via. Liborio Baldanza 58683 mecanicien. Un operaio siciliano da Sesto San Giovanni a Mauthausen, pp 144-152)
Sono piu che sbigottita nonostante sappia ..leggere è stato come camminare insieme a loro anche se ovviamente con una distanza siderale riguardo le condizioni di vita , l’anima è immersa in un dolore è una pena indicibile e resta la domanda: come è stato possibile tutto questo orrore come il male assoluto è stato permesso..?
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