Fabio Giovannini

Sul libro La resa dei conti di Beppe de Santis

Il libro La resa dei conti è un pregevole lavoro anche storiografico di “memoria storica”, scritto ai confini tra saggio e letteratura, e di cui c’era bisogno. A mio parere ha soprattutto un grande merito: rende nota un’esperienza di 40 anni fa che quasi nessuno, a parte i protagonisti, conosce. Dagli anni Settanta a metà degli anni Ottanta, infatti, nella giovane sinistra romana e nel Pci in particolare ci fu una grande battaglia politica tra due linee diverse rimasta sconosciuta ai più, anche perché combattuta nelle strettoie del centralismo democratico che silenziava ogni dissenso con l’accusa di “correntismo” e “frazionismo”.

A Roma c’era un’altra possibilità, per una sinistra diversa da quella che poi ha preso il potere, e Giuseppe De Santis ricostruisce con dati, nomi, riferimenti precisi le grandi iniziative e battaglie fatte, le conquiste ottenute da quell’altra sinistra.

Una importante caratteristica di quella stagione fu il protagonismo dei “fuorisede”, studenti di tutta Italia, soprattutto del Sud, concentrati nella capitale, nel grande mostro della città universitaria di Roma. Quello scontro fu anche scontro tra i “barbari” (la realtà popolare dei fuorisede e di tanti giovani mossi da un generoso desiderio di cambiamento) e una giovane “casta rossa” (i figli dei dirigenti del partito e del sindacato): i vincitori che presero il potere, infatti, erano in gran parte “i figli di”, perché figli di grandi nomi degli apparati politici, del Pci, dell’informazione, dell’imprenditoria e persino dell’aristocrazia. Ci illudevamo che fosse almeno parzialmente sincera la loro militanza, la proclamazione di essere “comunisti” e “rivoluzionari”, ma le loro biografie odierne, con un evidente declino anche umano, non lasciano dubbi.

Quell’altra sinistra fu sostanzialmente epurata dal prevalere di una fazione che nelle pagine di De Santis è giustamente incarnata in due personaggi centrali, Walter Veltroni e Goffredo Bettini. Ci fu una marginalizzazione ed esclusione progressiva del gruppo di compagni e militanti che nel partito comunista, nella federazione giovanile e nel sindacato esprimevano una posizione altra. Ed essere epurati dalla leadership di Roma era uno stop decisivo a una intera linea politica avversata, perché è noto che quella romana era una porta d’ingresso privilegiata per approdare alla politica nazionale.

Dal punto di vista dell’occupazione del potere la fazione dei “figli di” ha sicuramente vinto, riuscendo a emarginare e disperdere quell’altra parte di sinistra romana e non solo romana. Ma se sono stati vincitori dal punto di vista del potere, sono stati sconfitti dal punto di vista politico e morale. Tutte le loro elaborazioni superficiali (e De Santis lo mette bene in evidenza, citando brano per brano l’intervento al Lingotto di Veltroni e i vari libri-intervista di Bettini, contestandoli quasi parola per parola) sono state smentite dai fatti. Nelle loro tesi c’era il nulla assoluto (e in questo sono diretti antenati di Matteo Renzi), si notava chiaramente, e si nota tuttora, l’assenza di studi. Non si tratta nemmeno di rimproverare la mancanza di pensiero critico, di analisi critica della realtà che pure era quanto si insegnava nel vecchio Pci di cui quei personaggi facevano parte, ma l’assenza stessa di letture. Da quell’approccio non potevano che derivare subalternità totali alle dinamiche finanziarie ed economiche che hanno prevalso in questi decenni.

Mossi esclusivamente dalla spasmodica necessità di occupare il potere (ed emergere individualmente), a loro non serviva leggere, perché l’obiettivo era solo di trovare il modo per insediarsi in tutti gli spazi di potere possibili senza disturbare o mettere in discussione nessuna compatibilità economica, compresi gli affari poco limpidi che hanno caratterizzato Roma e di cui abbiamo visto gli esiti persino farseschi nell’intreccio di corruttele e di legami tra affari e politica.

Se quello era il personale politico dominante che la sinistra ha espresso, non poteva che limitarsi a gestire l’esistente, senza cambiarlo, portando inevitabilmente a Mafia Capitale, pienamente figlia di una gestione di Roma che ha anche il segno del centro-sinistra, da Rutelli in poi.

Il libro di De Santis ci ricorda un nodo storico cruciale: non era ineluttabile che quelli fossero gli unici esiti della sinistra a Roma e in Italia, un’altra sinistra c’era. La resa dei conti sconfessa apertamente l’idea che “non poteva che andare così”, che non potevano essere altri i destini della sinistra, dell’ex Pci e di Roma per come è stata governata.

Il gruppo “vincente” di politici romani, passati spesso alla dirigenza nazionale, non può fingere di non avere responsabilità enormi nello sfacelo di una città, la Capitale. Ma soprattutto pesa su di loro la responsabilità di aver proceduto a una vera e propria distruzione della democrazia.

C’era una rete democratica negli anni Settanta, fatta di partecipazione dei cittadini che dimostravano una grande vitalità. Non solo i militanti dei partiti, ma tanta gente comune, che si incontrava per discutere, litigare, contare e scegliere nelle grandi occasioni. Il ruolo delle sezioni di partito, delle case della cultura, delle assemblee popolari, dei centri di studio e formazione è stato spazzato via. Eliminato il filtro democratico, le decisioni venivano e vengono prese da ristrette cerchie incontrollabili e tramite accordi opachi con realtà imprenditoriali e affaristiche.

La resa dei conti non è una “operazione nostalgia” che si limita a rammentare le belle battaglie di un tempo, ma il tentativo di guardare quello che è stato per proiettarsi verso il futuro e per costruire qualcosa nel presente. Ci può essere una fuoriuscita dalla devastazione che è stata compiuta dalla dirigenza politica vincente di cui si parla nel libro di De Santis.

Occorre, quindi, fare tesoro di quell’esperienza per i tratti che la rendono viva ancora oggi, perché le posizioni sconfitte allora possono parlare alla politica del 2017 e degli anni a venire. La linea politica di quella parte altra di sinistra romana conteneva in nuce, ancora rozzamente, una proposta di cambiamento sui grandi temi chiave che hanno caratterizzato gli anni successivi, volutamente ignorati o non capiti dai “vincitori”. E allora da quell’esperienza è possibile, e necessario, partire per guardare in avanti e ispirare un movimento di liberazione nazionale in grado di mutare radicalmente la traiettoria polirica ed economica dell’Italia di oggi.

Fabio Giovannini