Ernesto Screpanti
Beppe De Santis e La resa dei conti.
“Siamo l’unico paese al mondo in cui le classi dirigenti, a fronte di una sconfitta, non hanno cambiato se stesse mantenendo i partiti, ma hanno cambiato i partiti mantenendo se stesse”. Ovvero, per essere più precisi, hanno preso un partito, che era stato il più grande e prestigioso partito comunista d’occidente, e ne hanno cambiato forma, “dal partito apparatizio al partito superleggero al partito vuoto”. Così Beppe De Santis in La resa dei conti: Alle radici di mafia capitale (Edizioni Arianna, Geraci Siculo, 2016, Euro 12), un libro intrigante, intelligente e appassionato.
Il sottotitolo però è in parte ingannevole, perché non si tratta tanto di mafia capitale, cioè della mafia politica a Roma, quanto di una mutazione genetica che ha coinvolto l’intera nazione, mutazione di cui quel partito è stato al contempo artefice e interprete. E il lettore che vi si avvicina lo farà alla ricerca di una spiegazione degli eventi storici che stiamo vivendo, alla ricerca delle cause lontane che hanno determinato la trasformazione di quel partito nel “partito delle riforme”, cioè nell’avanguardia (in)cosciente del grande capitale multinazionale in Italia. Il “vuoto” di quel partito è stato lo svuotamento della sua collocazione di classe, anzi, della sua base di classe. Solo svuotandolo del suo popolo si è potuto trasformarlo nel partito del “Jobs act”, della “buona scuola” etc. etc.
Le cause lontane di questa trasformazione vengono rintracciate da De Santis negli anni ’70. Ora, non voglio sollevare la questione se fosse necessario risalire ancora più indietro nel tempo. Certo, comunque, che De Santis ricostruisce lucidamente un episodio della lotta di classe dentro il PCI romano in quel decennio, un episodio che può essere stato decisivo.
Erano gli anni immediatamente successivi al Sessantotto e all’Autunno Caldo. Anni di intenso sviluppo economico e di crisi dure, di grandi speranze e aspettative rosee, e di forte vivacità culturale. E il PCI non poteva non essere attraversato da quelle tensioni. La lotta di classe che si svolgeva nel paese si svolse anche dentro il partito. Questa è la chiave di lettura proposta da De Santis. E la mutazione di cui stiamo parlando è la conseguenza di una sconfitta in quella lotta di classe.
Il partito, come è noto, non tollerava le correnti e il frazionismo. Tuttavia era strutturato in “grandi famiglie”, la famiglia Ferrara, la Rodano, la Chiaromonte, la Bufalini, la Ingrao, la Cossutta, la Barca, la Reichlin-Castellina. Famiglie, non nel deteriore senso democristiano di aggregazioni d’interessi, e anzi De Santis non nasconde la sua simpatia per alcune di esse. Bensì nel senso di gruppi di persone accomunate dagli obiettivi e dagli orientamenti politici. Ma anche nel senso di vivai di “pargoli rossi” che si apprestavano usare il partito per fare carriera.
Oltre alle famiglie, però, c’erano i clan. E De Santis non ha peli sulla lingua quando parla dei “furbi, gli arrivisti, le ‘giacche azzurre’, anche la componente più avida della pargolanza rossa romana, a partire dal clan Veltroni-Bettini”, che risulterà poi quello vincente. Si spiega così, con l’accumulo di potere di un clan, “la fulminante carriera di Veltroni [… alla base della quale] vi è la sua smodata, irrefrenabile ambizione, un amore assoluto per il potere, il potere per il potere.”
D’Alema non faceva parte di questo clan. Ne aveva un suo personale, il “clan dalemiano”. Lui “era furbo, aveva occhio”, ma evidentemente non gli è bastato, perché alla fine il clan vincitore è stato l’altro. E gli esiti di quella fine li possiamo osservare proprio oggi. Il partito di Renzi infatti è il diretto erede del clan che vinse la partita in quegli anni là.
De Santis ricostruisce gli eventi con l’acribia di un antropologo culturale che usa il metodo partecipativo. Ricostruisce eventi che lui stesso ha vissuto, li ricostruisce, diciamo così, dal di dentro, e quindi con passione, vivacità, anche rabbia e risentimento, ma sempre da antropologo, cioè scientificamente. Come accadde che quel partito si trasformò nel partito delle “riforme” e che questa trasformazione fu mediata dal clan Veltroni-Bettini?
Fu la conseguenza di due processi, uno esterno al partito e uno interno. Quello esterno riguarda un cambiamento epocale della forma di capitalismo, con il passaggio al capitalismo della deflazione rampante, dell’attacco al compromesso keynesiano, del neoliberismo, della Thatcher, di Reagan, e del fondamentalismo del mercato. Il processo interno invece riguarda le lotte e gli intrighi di potere dentro il partito. Come fu che la convergenza di questi due processi determinò la trasformazione di quell’organizzazione nel partito veltroniano delle multinazionali? Fu semplicemente questo: che la sete di “potere per il potere” portò il clan vincente dentro il partito ad abbracciare gli interessi della classe vincente fuori.
Sul processo di trasformazione economica e sociale esterna al partito De Santis non si dilunga. Lui è più interessato a ricostruire il processo interno. Dunque, secondo la sua ricostruzione, ecco cosa sarebbe accaduto. Negli anni ’70 Walter Veltroni era collegato, tramite il fratello Valerio, al “clan Occhetto”. Valerio era membro della segreteria nazionale della FGCI e braccio destro di Occhetto. Così il gruppo occhettiano “è stato per vent’anni il punto di appoggio primario della carriera veltroniana”. Nello stesso tempo la suocera di Veltroni, la senatrice Franca D’Alessandro Prisco, lo sosteneva negli ambienti dell’amministrazione comunale, e fu lei che favorì l’elezione di Walter nel consiglio Comunale di Roma, avviando in tal modo una luminosissima carriera “amministrativa”. Sul fronte mediatico Veltroni era sostenuto dal clan di Rai3, forse in virtù della memoria del prestigio giornalistico di Vittorio, padre di Walter. Infine “l’astuto Bettini” curava le relazioni sociali con i “pargoli rossi” delle più potenti famiglie, i Chiaromonte, i Bufalini, perfino gli Ingrao.
Con un esercito così potente, si capisce come il nostro abbia infine potuto vincere la battaglia per il potere e diventare, tra l’altro, sindaco di Roma per ben 7 anni (controllando anche la Regione Lazio col “fido Marrazzo”) e segretario del partito in più riprese (tutte risoltesi, peraltro, in sonore sconfitte elettorali). Ma bisogna capire che quella vittoria non è stata soltanto il prodotto di accorti intrighi di palazzo. È stata anche un’altra cosa, una cosa molto più tragica: la vittoria in un conflitto di classe che si svolgeva nella società e nell’economia dell’intera nazione, e che si è risolto, tramite battaglie come il referendum sulla scala mobile, la marcia dei 40.000 alla Fiat, il divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro, etc. etc., in una sconfitta epocale del proletariato.
Chi erano i proletari interni, la classe operaia che il clan Veltroni ha dovuto schiacciare per conquistare il potere e avviare la mutazione genetica del partito? Be’, questa è la parte più commovente del libro. Perché qui De Santis parla di se stesso.
All’inizio degli anni ’70 c’erano 40.000 studenti fuori sede all’università di Roma. Gran parte di loro provenivano da famiglie di ceto medio-basso, operai, impiegati, contadini, artigiani, commercianti. Erano una sorta di proletariato intellettuale, una massa di figli di sfruttati che finalmente accedeva all’istruzione superiore, soprattutto in forza dell’intenso sviluppo economico degli anni ’50-’60 e del connesso innalzamento della mobilità sociale. Buona parte di quei giovani andranno a infoltire le schiere dei movimenti che condussero le lotte studentesche prima e operaie dopo, pace Pier Paolo Pasolini. Un’altra parte invece entrò nella FGCI romana, la più movimentista delle FGCI. E furono questi che tentarono l’utopistica impresa di rivitalizzare quel partito proprio nel momento in cui stava precipitando nel vortice veltroniano. E fu contro la loro resistenza che il clan Veltroni-Bettini dovette scontrarsi soprattutto.
Toccante è la ricostruzione che De Santis produce di quel milieu politico-sociale, quando parla della Sezione Universitaria PCI Eugenio Curiel, delle cellule FGCI nelle varie facoltà, della sede della FGCI di Via dei Frentani (in cui peraltro fu preparata la battaglia di Valle Giulia), della “Comune di Piazza Dante”, “un accampamento di fuorisede […] tutti poveri e poverissimi […] e tenaci primi della classe”, della “meravigliosa rete delle sezioni comuniste di quartiere”. E poi delle loro lotte, del movimento delle “Leghe dei Disoccupati”, del Centro studi di Via del Seminario, del “Movimento dei Diritti e delle Regole”. Infine, come è giusto, dei padri nobili, soprattutto Bruno Trentin e Gianni Borgna.
Col segno di poi ci si può domandare: poteva vincere questo proletariato interno? Poteva vincere quando il proletariato esterno andava incontro a una sconfitta dopo l’altra? Chiaramente, una domanda retorica. Cionondimeno vale la pena cercare di capire come e perché. Se volete farlo, leggetevi Questo libro.