La devozione di Turi, di Antonino Cicero. Novità

LA DEVOZIONE DI TURI, romanzo di Antonino Cicero. Novità in distribuzione. 

In distribuzione il nuovo libro di Antonino Cicero, La devozione di Turi.
Con la copertina di Marcella Brancaforte, e la postfazione di Pippo Oddo.

I titoli, spesso, sono come i bambini che si rincorrono per strada: l’uno richiama l’altro, in una catena di rimandi che non sempre è facile trattenere. Questo libro ne ha abbozzato più di uno: Turi, contadino, uomo semplice e parecchio timorato, si agita tra la devozione religiosa e il suo amore per Maria, promessa in sposa a un forestiero. Accanto a loro ci sono taverne, bari e sacerdoti che serbano misteri; c’è un tesoro – che è la truvatura di tante leggende e di tanti cunti: e allora, per onesto che sia lo scopritore, il libro diventa “il tesoro degli onesti” – e ci sono storie umane immerse in una narrazione che si snoda nell’arco di una sola notte. E “quella notte venne e cantò”, mormorò e sospirò tra i miracoli e le rivolte della povera gente e dei soldati a difesa delle pance piene. In quella notte, tra Cinque e Seicento, sullo sfondo di una società siciliana arcaica e diseguale, Turi vide scorrere più accadimenti che in tutta la sua esistenza: e “gli incanti” furono “mutevoli” al pari del vento che sfronda rami e certezze. Come in un cerchio che mette dentro amore, superstizione e fede, convinzione e smarrimento, alla fine si torna al punto da cui si era partiti; ma più ricchi di prima, come solo un viaggio riesce a fare. [quarta di copertina]

Incipit

Ai viaggiatori che hanno visto quanto le colonne fossero pezzi di legno nella mente; ai profeti che hanno udito i passi del mistero e poi il divino infrangersi di cammini mai sopiti; ai semplici che hanno conosciuto la verità del giorno e i dubbi del giardino capovolto, tra la notte e le luci dell’alba; a loro il mondo ha sempre cercato di dare risposte, scontentandone tanti e accontentando i pochi che hanno avuto il coraggio di entrare nelle viscere e poi esplodere in superficie. Come le piccole larve che sfrondano e graffiano la terra umida, penetrandola in quel buio corposo che sa di notte senza fine, mungendone le mammelle e cavandone umori e forti odori. Scavano lentamente, come le gocce che rimpiangono l’armonia e ingravidano le rocce, fino a togliere loro consistenza. Larve puntute, cornute, gonfie. Tronfie, perché capaci di deprimere la madre terra fino alla luce, per esplodere in superficie. Ancora.

Nei secoli dove tutto s’è preso, dall’idea che il mondo finisse alla puntura di nuovi insetti, a quel varco che non fu India ma fu Merica; nei secoli che seguirono – bui e contorti nella notte dei processi, che gravavano sulle teste dei cristiani come i tetti delle case dipinte d’oro e di peccato – ci furono scoperte, fedi arrugginite, cavalli di parata, musici d’aborto, capitani di avventure e baroni effeminati. Ci furono arti e parti, mosaici sbozzati e materie animate, peste avida e attrezzi di innovazione. Nei secoli che precedettero unità e stati nuovi, moderne vie e liberali intrecci; nei secoli in mezzo, nei tempi bui e di luce, nelle terre di mezzo dove tutto taceva e nulla s’acquetava; in quei secoli, a scendere per il buco picciolo di una ballata d’amore, in un punto preciso di quell’isola che aveva per confini mari nostri e alle spalle la violenza del fuoco sulle ringhiere dei monti scrostati; in quei secoli, a scendere scendere, sotto sotto, per trovare servi, umili e signore, donne di cuori e fimmini di borgata; nei secoli che s’affacciarono nel mezzo del millennio, in quel posto che fu contea e che narrò miracoli e poi pascoli, pa- cenzia e vossia, che nascose tesori e pigiò leggende dentro al tino come i gracili cocci di uva; in quel posto che è ovunque, che è posto preciso e dovunque compreso, lì uomini e donne piansero sulla terra che fu sistema.

Ogni sistema inghiotte sempre le ultime ruote di un carro che sbraita all’aria. Cigola, annaca, arranca, ma chi è portato sopra non è ruota. Che sta in basso, giù, a contatto con il fetore ammansito. Chi è portato è signore o scaltro, ricco o arricchito, nobile o pollastro. Ma sempre sopra è e ci resta per tutto il viaggio. Un viaggio – quello che della terra fece sistema – durato quanto milioni di vite messe insieme, corde senza fine tirate da lontano e che hanno legato mani e piedi di giovinastri e padri di famiglie incantate. Un viaggio che non ha mutato leggi e regole, norme e divieti: questi ultimi per i poveri, poveracci, po- verazzi, piccoli uomini tracciati dal sole lungo tutta la linea del corpo; le concessioni invece – ampie e larghe come le pance dei bastimenti – per i porci appesantiti dalle ricchezze e dai titoli.

Nei secoli di mezzo, anche in quella terra che fu isola e viceregno, che fu continente e pugno di genti; in quella terra che pianse e che rise, dove tutto fu concesso per sostanza, ma mai per forma – che per forma è il cavillo della parola scritta e l’intreccio di quella non scritta, che è più ricca assai di cose non dette e dette per meglio specificare; in quella terra dove si parlava tanto per compiacere l’uomo e per spezzare pane e reni; in quella terra di mezzo che fu isola quando chiese di stare sola e che fu ponte per reclamare denari, drammi e bestemmie; in quell’isola che non accettò di farsi dire come essere isola; che non accettò di farsi dire che era isola, presuntuosa e preziosa, che azzardava e azzannava collo e cuore; in quell’isola dove non era cosa buona fare radici e aspettare che d’estate, e pure d’inverno, l’acqua venisse calata dall’alto per placare la sete; in quell’isola che fu mondo, tutto e niente, e pure cortile d’alto bordo – che a farne il giro veniva il giorno nuovo; in quell’isola, in quei secoli di mezzo, dove la terra, quella seminata e ammazzata, fu sistema e ricchezza, gola e culo, povertà e chianto; dove il signore paria sentenza e il povero, poveraccio, poverazzo contadino condannato e nulla più; in quell’isola e, giù giù, in quella contea che fu uguale a tante altre tra le valli che gli arabi nominarono di Noto, di Mazara, Demone; in quella contea che stava al nord – uguale a tante altre a l’oriente e pure al mezzogiorno e a l’occidente – e che fu terra di parrini, chiese, conventi e notari, congregazioni, allevatori, facchini, piritolli e avvocati, soldati e argentieri, campanari e mastri di ceramica; in quella contea, come anche in tante altre, uguali uguali, vi furono il mistero, li spettacoli e la terra appizzata al tempo che pagò il fio, infeudato e infiorato.

Tempi bui e nivuri furono quelli che Turi e compari vissero; tempi bui e nivuri per quei contadini, genti di terra, poveri, poveretti, trasgressori, piccoli costruttori; uomini di cultura antica e “cavura di saperi” – dicevano i pidocchi arrotolati in abiti abbondanti, di fine fattura, con penne e piume, bolle e tranelli per il buon gusto, abituati a sbadiglia- re con una gamba sull’altra e a rincorrersi tra i corridoi e le stanze spente, catturate dalle spesse pareti, di palazzi piantati come alberi secolari in mezzo a strade e gozzovigli.

«Cultura di specie, di dotti agricoli dottori della terra» precisavano «che assaggiano le zolle e ne pesano l’anima». Ogni zolla, una variazione: come cibi; ogni zolla, una sfu- matura: come quadri. Continua qui

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