Caccamo No alla violenza sulle donne, con il libro Favola significa

Favola significa di Maria Rosaria Cammarata Presentazione a Caccamo, aula consiliare, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, 23 novembre

Book performance per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne con il romanzo di Maria Rosaria Cammarata, Favola significa e la mostra fotografica Donne prigioniere di Damiano Macaluso:

Caccamo, Aula consiliare Mico Geraci  
Sabato 23 novembre 2019 ore 18.00.

Interverranno con l’Autrice e il Fotografo
Rosa Maria Di Cola, Moderatrice della serata;
Vincenza Martino,
Presidente della F.I.D.A.P.A. Caccamo;
Nicasio Di Cola, 
Sindaco del Comune;
Arianna Attinasi,
Edizioni Arianna;
Liliana Pitarresi,
Coordinatrice Rete Territoriale Antiviolenza Amorù;
Valentina Cicirello,
Vice Presidente Life & Life;
Renato Filippello, 
intermezzo musicale sax e clarinetto;
Antonella Liberto, intermezzo musicale pianoforte.

«Sangue di Giuda, la puzza di verdura si sente dalla porta. Sempre la stessa minestra. Che si mangia in questa casa? Cicoria, ci scommetto, porca di quella miseria… ma che sai cucinare solo cicoria sai cucinare?».
Don Ciccio aveva appena varcato l’uscio di casa che già quelle quattro mura tuonarono della sua rabbia. Le sue maledizioni fecero sbiancare Sara. Mongibello era tornato.
L’uomo entrò in cucina, prese uno dei piatti di verdura dalla tavola e lo tirò dritto contro il quadro di San Giuseppe che si trovava appeso di fronte alla porta della stanzetta.
«Così imparate a chiudervi le orecchie quando prego! Ve le chiudo io le orecchie con queste belle foglie di cicoria!» urlò Don Ciccio contro l’immagine sacra.

«Sacrilegio!» disse piano la donna per paura di essere sentita ed ebbe un sussulto quando il marito la guardò. Fece finta di niente, cercò una pezza e si diresse verso l’oggetto della blasfemia per pulirlo. L’uomo l’afferrò per un braccio e le disse quasi in un sussurro: «Se ti azzardi a farlo ti rompo tutte le dita di questa mano».
Sara chiuse gli occhi e temette di essere picchiata nuovamente, quando nel piccolo ingresso si sentirono dei passi. I suoi figli erano rientrati. Don Ciccio lasciò il braccio della donna che fece una smorfia di dolore e prima che i tre ragazzi giungessero in cucina l’uomo le diede un’occhiata come per dire “se ti lamenti davanti a loro ti ammazzo”.

Aldo, Giuseppe e Carmelo erano i tre figli di Sara e Don Ciccio Amertana. Aldo, il maggiore, nacque che lei era poco più che adolescente. Aveva sedici anni quando divenne madre per la prima volta. Giuseppe era nato due anni dopo e Carmelo, il più piccolo, era arrivato a distanza di diciotto mesi dal fratello. Sara aveva adesso trentacinque anni. Era ancora una bella donna, ma il suo volto liscio e pulito era appesantito dal timore e dalla stanchezza. Aveva sempre lavorato tanto, povera donna. Fino a tre mesi prima era stata impiegata in un pastificio. Ora che la piccola fabbrica aveva chiuso i battenti, la donna era in attesa di qualche altra occupazione che le permettesse di arricchire le finanze del circolo dove il marito andava a giocare a scopa con gli amici.

«Venite» disse la donna, rivolgendosi ai figli. «L’acqua è calda, potete andare a lavarvi» continuò, sforzandosi di coprire l’occhio con la mano.
«Se permetti, il padrone di questa casa sono io e prima di me non si lava nessuno» disse Don Ciccio con voce arrogante e se ne andò nella stanza adiacente il bagno, la stessa usata dai figli per dormire, dove la moglie aveva predisposto una bagnera con dell’acqua calda e degli asciugamani di lino puliti.
Mentre l’uomo si lavava, Carmelo si avvicinò alla madre, le prese il viso con delicatezza e osservò l’occhio che ormai era irrimediabilmente nero.

«Cos’è successo? Te le ha date di nuovo?» chiese Giuseppe frastornato. Aldo, il maggiore, al contrario, aveva finito per accogliere quella tragedia, quasi giornaliera, come ogni altro evento quotidiano. Il ragazzo si era rassegnato a credere che le vicissitudini della sua famiglia fossero normali, persino legittime, e che di certo si sarebbero verificate allo stesso modo in ogni casa rispettabile. Se avesse avuto una moglie, probabilmente, l’avrebbe trattata come suo padre. [pagg. 22-23]

Nonostante venisse trattata come una bestia da macello, non riusciva mai a mancargli di rispetto, nemmeno in privato. Non sapeva definire i suoi sentimenti nei confronti del mari- to. Non sapeva se ciò che provava fosse rabbia, risentimento, paura, ma di certo non lo disprezzava. Lo vedeva come un padrone molto esigente e suscettibile che bisognava gestire con tatto e astuzia. Guai a sbagliare una parola, bisognava sempre prevedere cosa Don Ciccio volesse sentirsi dire, intuire i suoi desideri…

 

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