L’essenziale è vivere, di Gandolfo Librizzi

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Descrizione

Titolo: L’essenziale è vivere.
Autore: Gandolfo Librizzi
Editore: Edizioni Arianna
Pagine: 344
Prezzo: 16,00
ISBN: 9791280528575
Luogo di pubblicazione: Geraci Siculo
Anno: 2024

L’essenziale è vivere. La vita si fa vivendo

INTRODUZIONE

Il pensiero ci caratterizza e ci distingue. Chi non pensa? Tutti pensiamo. A qualsiasi età, senza distinzione, tutti i giorni siamo attraversati da pensieri. Solo che spesso essi non vengono annotati. Meditati. Approfonditi. Soppesati. Non potendoli toccare con mano essi ci sembrano irreali. Eppure sono altrettanto reali quanto lo é un fatto. O un sasso. O qualsiasi altra cosa cada sotto l’esperienza dei sensi. Così disperdiamo un enorme patrimonio di saggezza personale utile, innanzitutto, per noi stessi, per migliorare la nostra esistenza. Per avere coscienza di noi, del nostro sé, del nostro tempo. Semplicemente tradurli dando loro un’espressione, un corpo di segni con le parole, costituisce tra le più intime esperienze che si possano fare.

Le parole, infatti, che ne alimentano l’elaborazione ne portano in vita anche la sua vitalità, la sua intrinseca e dirompente forza creatrice. Esse sono la parte esteriore del pensiero e perciò la parte più preziosa di noi perché ci mettono in relazione con le cose, con il mondo, con noi stessi. Un vecchio mantra indiano dice che, per vivere bene, bisogna “pensare bene, parlare bene, agire bene”, o, altrimenti detto, “chi parla male, pensa male e vive male”. Insomma, i pensieri sono vitali, sono pura energia come quella che anima le cose vive. Poco pensiamo alla qualità del pensare ma è lì la radice che determina la qualità della nostra vita perché da lì discende la parola, quindi l’azione. Per questo bisogna aver cura dei pensieri come tra i beni più preziosi. Si rifletta. «Le parole che utilizziamo hanno un potere enorme sulla nostra vita e su quella degli altri, siano esse pensate che dette. Attraverso esse comunichiamo le nostre idee, le nostre convinzioni, le nostre emozioni, attraiamo esperienze, muoviamo stati d’animo e creiamo realtà. Ogni parola che pronunciamo è la connessione diretta fra il pensiero e il piano fisico, materiale». Quando dichiariamo qualcosa stiamo portando pensieri caricati dall’intenzione sul piano concreto, visibile. Quando parliamo stiamo creando la nostra realtà che prima abbiamo pensato! Sì, creiamo realtà. Ogni parola che pronunciamo è, dunque, la connessione diretta fra il pensiero e il piano fisico, materiale. Per questo motivo di essi, ossia, del pensiero e della parola, della loro qualità e sostanza, ne dovremmo avere sempre un culto sacro non dimenticando mai l’unità che sussiste e intercorre fra pensiero, parola e azione che domanda sempre «Che la vita vissuta dia testimonianza della parola detta». Pensare il pensiero soppesandolo, è un atto di forza interiore ineguagliabile. Un imperativo etico.

Perciò, come un fotografo con uno scatto, prendere l’abitudine di scrivere quel che pensiamo quando qualcosa ci impressiona a tal punto da non poterne fare a meno di fissarla per sempre è qualcosa di essenziale e straordinario. Subito dopo che ci alziamo o prima di andare a dormire, sia che ci troviamo a casa seduti comodamente alla scrivania, nel divano oppure appartati in quell’angolo di intimità che ci consegniamo nel silenzio di un eremo, di un bosco, in riva al mare o di un lago, in cima alla montagna o nel deserto, nel letto di un ospedale, in una anonima stanza d’albergo o in qualsiasi altro caotico crocevia del mondo dove ci possiamo trovare a transitare quando girovaghiamo. Al bar, alla stazione, in aeroporto. Nel cuore della notte, in attesa dell’alba o al declinare del sole. Trascrivere ciò che in quel preciso momento assume carattere di urgenza non è una sterile esercitazione, ma un esercizio prezioso e imprescindibile se vogliamo che i nostri pensieri non vadano dispersi. Essi potrebbero diventare parole piene e ricche di vita, di azioni, di fatti. Poi, un giorno, memoria e ricordi. Essi sono la nostra immagine riflessa che rimane impressa sulla pagina. Leggendole aiutano a capire meglio. Dalla testa direttamente sulla carta. Non un semplice copia e incolla, ma qualcosa di più. Perché scrivere ti costringe a dire e, per dire, a ricercare quell’unica e sola accurata parola possibile per colmare il vuoto dell’urgenza che avverti come dirimente per la tua vita e così provare ad esprimere qualcosa di essenziale e compiuta. Anche una sola e semplice parola è importante, poiché «una parola scritta è la più degna reliquia. È qualcosa di più intimo e insieme più universale di ogni altra opera d’arte. È l’opera d’arte più vicina alla stessa vita». Scrivere ti costringe a essere sincero, a essere te stesso. Tenere sempre con sé un quaderno o un’agenda per annotare anche una sola parola, una sola e semplice impressione che la circostanza ti suggerisce, di una frase di autori che in quel preciso momento, sfogliandone le pagine di un loro libro, hanno intercettato la tua sensibilità e attenzione in te rimanendo impressa, non solo equivale a tracciare la mappa della tua vita, ma diventa anche un prezioso esercizio quotidiano che indica le coordinate del tuo viaggio attraverso le quali hai proceduto. In altre parole «i tuoi pensieri modellano la tua esistenza. Poiché ciò che un uomo pensa ogni giorno, inevitabilmente lo diventa. Se vuoi conoscere la sorte che ti riserva il futuro non devi fare altro che esaminare i tuoi pensieri di oggi: essi sono la promessa del domani». Rileggendoli vedrai la tua vera vita e capirai molte delle cose accadute. Gli errori commessi ma anche le gioie e i dolori attraversati in un battito di ciglia, tutto scorrendo via fugacemente nel mentre ti attardi a cogliere la rosa… Allora, la trama del disegno si presenta lì davanti a te nello svolgersi del suo farsi quotidiano. Questo esercita la volontà del pensiero! Così è nato ed è andato componendosi questo intimo scritto la cui stesura è avvenuta in un lungo periodo con un getto imperioso di impellente urgenza personale per non disperdere il pensiero del momento. Scaturito dagli stimoli ricevuti nel diverso peregrinare, ho provato a mettere a fuoco le cose ritenute più dirimenti ed essenziali in un continuo dialogo, intimo e solitario, con me stesso. Un gettito lasciato intonso per lungo tempo che solo di recente, per la pura coincidenza in vista dell’anno dei miei sessant’anni, è stato ripreso, ampliato e cesellato offrendosi così come un piccolo dono fatto innanzitutto a me stesso e a chi, senza pretesa alcuna, le parole qui scritte possano suscitare qualche utile analoga riflessione sui temi affrontati.

Già, sessant’anni. Una vita. Un tempo abbastanza ampio e tuttavia non del tutto ancora conchiuso. Uno dei tanti passaggi simbolici, una data utile quale espediente per dare corpo e respiro a quanto via via è emerso nel corso del cammino.

Per la gran parte viviamo più o meno vorticosamente e più o meno spesso così ‘inutilmente’ o inconsapevolmente, lasciandoci trascinare dal fluire dell’inerzia esistenziale con i giorni, spesso monotoni, che si susseguono ripetitivamente uno uguale all’altro cosicché, quando arrivi a uno dei punti di snodo come questi, date simboliche di passaggio che segnano la vita di ognuno, i primi dei quali affrontati imperiosamente per la voglia di crescere ed affermarti (10, 20, 30, 40 anni); poi sempre più con avvertita e consapevole malinconia (50, 60, … anni), voltandoti indietro, stupito e sorpreso, ti accorgi che la strada percorsa è maggiore di quella che ti rimane da percorrere avendo già superato da tempo il punto di non ritorno (che ovvia constatazione!). D’un colpo capisci che si spalanca davanti a te tutta una nuova quanto inesorabile prospettiva.

Al riguardo, proprio su questa data simbolica dei sessant’anni, tra tante, mi è ritornato quanto avevo letto e mi era rimasto impresso: due scene recuperate dalla scrittura di Tiziano Terzani (autore che, specie in ultimo del suo passaggio, ha lasciato una significativa traccia di riflessione sulla vita e sul senso dell’esistenza), che ho sempre meditato fin dal primo minuto. Come un disvelamento, esse mi hanno proiettato in una nuova consapevolezza sul tempo, sugli anni che passano e su come vivere, soprattutto nella parte finale, il senso di questo lento affrettato procedere.

La prima è questa.

Un giorno, un taxista, presentandosi gli dice che «ha quarantasette anni e altri tredici da vivere. “Tredici? E come lo sa?”. “Me lo ha detto il mio dio. Me lo disse quand’ero ancora a casa mia, in India, vent’anni fa. E sono contento, perché un uomo a sessant’anni non dovrebbe rammaricarsi di morire. Certo nessuno vuol morire, ma siamo così tanti sulla Terra che dobbiamo lasciare il posto ad altri… e sessant’anni mi pare una buona età per farlo”. “Ma, io ne ho cinquantanove […] lei crede che io debba morire davvero a sessanta?” “No, lei è in buona forma”».

L’altra è questa.

Sempre in India vi sono degli asharam (eremi) dove si va per studiare, meglio sarebbe dire meditare sui fatti essenziali della vita, sul sé. Shisha si chiama colui che lo frequenta (uno che merita di studiare). «Secondo la visione tradizionale indiana, la vita di un uomo è divisa in quattro stagioni precise e distinte, ognuna coi suoi frutti, i suoi diritti e i suoi doveri.

La prima stagione è quella dell’infanzia e dell’adolescenza, il tempo dello studio in cui uno impara tutto quello che gli servirà poi. La seconda stagione è quella della maturità in cui l’uomo diventa marito, padre, assume il proprio ruolo nella famiglia e con questo contribuisce al mantenimento e alla continuazione della società. Questo è il periodo in cui è giusto e lecito perseguire desideri come la ricchezza, il piacere, la fama e la conoscenza del mondo. Dopo di questo, quando i figli diventano a loro volta mariti e padri, viene la stagione del distacco, dell’andare nella foresta”. Con questo ritirarsi l’uomo si lascia dietro gioie, preoccupazioni, successi, delusioni – tutto ciò che è passeggero, che è illusorio nella vita – per dedicarsi a qualcosa di più reale, qualcosa di più permanente.

Ultima, se così si sceglie, viene la stagione in cui, ormai slegato da tutto, diventato un semplice mendicante, l’uomo si fa sanyasin e, vestito del colore del fuoco nel quale ha simbolicamente bruciato tutto quello che era dell’Io temporale, compresi i desideri, cerca oramai solo moksha, la liberazione definitiva del samsara, il mondo dei mutamenti, l’oceano della vita e della morte.

Moksha è la destinazione finale del viaggio di un sanyasin. Niente più lo distrae da quella meta. Certo niente del suo passato, che viene simbolicamente dato alle fiamme in un “funerale” di cui lui stesso accende la pira per saltarci sopra e uscirne nuovo. Ora non è più legato a niente, assolutamente a niente: non alla sua casta, non alla sua famiglia, non al suo nome. Neppure alla religione e ai suoi riti. La tunica arancione con cui si copre dopo quel “funerale”, non a caso, è fatta di un unico pezzo di stoffa, senza cuciture e senza nodi. Quando morirà, il suo corpo verrà buttato in un fiume anziché essere cremato come tutti gli altri, perché lui, il sanasi, è già passato attraverso le fiamme.

Ogni passaggio dall’una all’altra stagione della vita è marcato formalmente da un rito nel corso del quale, come in ogni iniziazione, da una morte simbolica nasce la vita, dal vecchio nasce il nuovo.

A suo modo, anche la società occidentale moderna, perseguendo le sue mete – oramai tutte esclusivamente materiali – ha istituzionalizzato questo passaggio all’ultima stagione della vita: con la pensione. Dopo i sessanta o i sessantacinque anni uno smette di lavorare e viene pagato per andare a pescare, a dipingere o, molto più spesso, per annoiarsi nel rimpianto di non essere più quello che è stato […]. A tanti capita così di essere vittime di un infarto e di smettere definitivamente di essere qualsiasi cosa».

Così è venuta affermandosi l’idea di rivedere in forma più ordinata questo quaderno di appunti sparsi di pensieri venuti fuori via via senza pretesa alcuna, per intima necessità interiore tra un vagare (e divagare) da flâneur intorno al mondo e intorno al sé (pensieri e riflessioni aggregati e selezionati intorno ad alcune divagazioni principali fra i tanti lasciati lì a animare altre pagine intonse: l’esistenza, il tempo, la morte, la vita, i paesaggi di altre culture, il viaggio, il cammino, anche la politica e il potere, infine, una certa idea e esperienza del sacro o, detto diversamente, dello spirituale di cui comunque siamo implicati e si avverte il richiamo). Pensieri segnati e meditati per dare espressione alla voce interiore come un ristoro catartico di una sosta in un’oasi in mezzo al deserto nel mentre si procedeva e ci si districava in un mare in tempesta affaccendato in diverse altre, a volte, impegnative più immediate attività. Un quaderno di appunti sparsi, dicevo, per comunicare l’idea, la sola che possa avere una qualche importanza e un certo valore di per sé: che la vita si fa vivendo e non deve sciuparsene l’occasione di viverla fino in fondo laddove essa davvero eternamente vive, cioè in ogni suo irripetibile attimo, perché, se è pur vero che si morirà (il memento mori di ognuno è lì che ci attende), tuttavia è certo che intanto si sta vivendo, che questo vi- vere che avviene ora, in questo tuo istante, laddove si materializza e si compie la pienezza del tempo di ciascuno, è ben più importante e meraviglioso, ben più misterioso e luminoso se solo si pensasse che poteva non accadere o che, d’un tratto, potrebbe non essere più. Il senso inevitabile della morte deve diventare il senso profondo della vita. E dunque, se bisogna ricordarsi sempre che devi pur morire, più importante, semmai, è l’imperativo categorico di ricordarsi sempre che devi soprattutto vivere.

 

Informazioni aggiuntive

Dimensioni 17 × 12 × 2 cm