Descrizione
Titolo:Via Labirinto, 73
Autore: Emanuele Di Oriente
Editore: Edizioni Arianna
Pagine: 320
Prezzo: 22,00
ISBN: 9791280528650
Luogo di pubblicazione: Geraci Siculo
Anno pubblicazione: 2025
Irruppi in casa gasato dalla mattinata scolastica. Desinare con frittata a insaporire il pane estratto dal cassetto dell’unico tavolo di casa. Adibito di volta in volta a piano di lavoro, banco per i compiti, asse da stiro e tutto quanto é bello e possibile compiere su una superficie orizzontale, nell’occasione da tavola fungeva, apparecchiata per il mio pranzo. Sfarzoso rispetto ai soliti pasti di mezzogiorno, nei quali il companatico da un pezzetto di cacio ovino era rappresentato, qualche fico secco, due sarde intinte in un composto di olio e succo di pomodoro, un pizzico di zucchero. Da uno solo di tali elementi, intendo dire. Malgrado la mia avversione a tale beverone, messo con le spalle al muro anche una pagnotta intinta nel vino ero in grado di gustare. Né erano rari i giorni in cui al prezioso derivato del grano compagnia non si affiancava, idonea a farlo calare. Come se con il cibo mi misurassi, a quattro palmenti mangiavo e gesticolavo con movimenti nervosi.
«Te la mangi la spesa! Meglio comprarti un vestito», mi disse compiaciuta mia madre dopo avere, con il rabberciato ferro da stiro colmato di carboni ardenti, spianato i panni lavati con la lisciva a base di cenere, sciacquati al Capo e asciugati sul fil di ferro steso tra il nostro e il balcone di Annicchia Custurera.
«Che festa é oggi?», le replicai con le gote gonfie di un boccone, in veloce movimento da destra a sinistra e viceversa. «Pensa a levarti la fame, tu – mi ammonì lei mentre si sedeva di fronte all’antiquata singer, regalo di nozze della sua omonima zia Filippa. Per qualche minuto mi osservò in silenzio – Tu t’attaccasti con qualcuno. Dalla tua faccia lo capisco».
«Detti due papagni a quel maccarrone di Tanino Gaiuto», la mia dichiarazione pregna di orgoglio.
«Proprio con Tanuzzu te la dovevi pigliare, facciazza di latta?», addolorata a tal punto non l’avevo mai veduta.
«Ha due mesi piú di me, lui. – ribattei, anche se mi era caduta la faccia in terra – Zitto zitto quel cucuzza senza semenza, sempre alla ricerca di stronzi secchi di bestie per il focolare, scopiazzò i miei compiti facendomi cresimare dalla mia maestra con un cinque dita sulla guancia. Sto laido!».
«Più laido di una coltellata ci sei tu, figlio mio. Non lo sai che a casa sua ci manca il pane e il santissimo sale? Tu invece suchi da una minna bella gonfia, più bestia di una nottata di vento che non sei altro. Come è vero che il sazio non crede al digiuno! Per sua madre tutti pregammo. Alla fine si fermò che aveva la vita davanti e se ne andò ai quattro tumoli troppo picciotta, lasciandoci al bambino solo gli occhi per piangere e i capelli per tirarseli. A casa con le braccia aperte non la trova più Taniddu. Né la sera, prima del bacio della buonanotte, ci aggiusta le coperte. Per una volta te la potevi tenere la manatina», mai sul volto di mia madre avevo letto tanta afflizione.
«Ma però quell’inutile pieno di vento… ».
«Ancora legna metti! Che se continui a rispondermi ti faccio correre per quanto sei lungo. Ma siccome sei mio figlio e l’albero si raddrizza quando è piantina tenera, ti voglio imparare una cosa. Se fai il bene scordatelo, ma però quando fai il male ci devi pensare. Bene. Per non ricaderci. E a quell’orfanello, dolce come una lapuzza di miele e solo come una mosca in un bosco, domani quando lo vedi ci devi dare un bacetto e farci pace, pezzo di fesso che solo chi non ti conosce ti compra. Per il latte che ti detti me lo devi promettere. Se no, come ti feci, ti sfaccio. Palora di to matri». Così disse. E si immerse nella sua attività.
Alla svelta consumai le briciole di cibo ormai voltosi a tossico. Senza proferire parole. E, sotto i rintocchi ossessivamente lenti e ritmati della campana a morto, sgattaiolai di casa. Vedendomi incupito da sbattere contro i suoi piedi mia zia Pippina, per asciugarsi i capelli seduta al sole sul gradino esterno dell’uscio, si pose il dito sulle labbra come a chiedere complicità e mi sussurrò:
«Solo chi ti vuole bene ti fa piangere. A farti ridere ci pensa chi non ti vuole bene. Insacca e porta a casa». Doveva aver sentito tutto.
Le feci una boccaccia scherzosa e mi diressi verso la Montata Cattedrale. C’erano tutti attorno a Franciccio. Contro il parere generale, in epica solitudine una capatina egli caldeggiava alla fiumara. Prima che la stagione autunnale i suoi artigli sfoderasse cattivi. Rifulgeva infatti il primo pomeriggio, di quelli invoglianti alla campagna. Arrivato con ritardo il mio assenso espressi alla proposta.
«Il funerale di Ramunno Sucaita finì. La banda suonò l’ultima marcia – tentò di persuadermi Vincenzo Friscaletto, perfino di me più lentigginoso – e, come si capisce dalla scampanata, partì la processione per il suo viaggio finale verso la mezza salma. E camposanto significa liquirizia a minchia piena, a due passi dal muro di cinta».
«Anche perchè se non lo facciamo oggi, chissà se ci capita domani. Perciò io dico di andare perché ogni lasciata è perduta», l’appoggiò Stanzillà. (…)[incipit cap. 2, pagg.30-32]