Vincenzo Muscarella al suo secondo romanzo: Maruzza

Vincenzo Muscarella dopo il successo di Damiana pubblica il suo secondo romanzo: Maruzza

Con la prefazione di Francesco Tornatore (vedi qui articolo) è in arrivo  il secondo romanzo di Vincenzo Muscarella dal titolo ancora una volta sicilianissimo, Maruzza.
Un romanzo storico ambientato negli anni tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
La storia di una ragazza del popolo che grazie alla sua bellezza fa innamorare di se il figlio di un odioso ricco farmacista aspirante sindaco di un paese del palermitano.
Il matrimonio ostacolato costringe i giovani alla fuitina, alla fame, all’emigrazione, alla morte della figlia nell’incendio della fabbrica tessile Triangle di New York.
Il 25 marzo 1911.
Ahi l’emigrazione, un affare per la mafia locale, un dramma per la povera gente che cerca fortuna in America!

“L’incendio – dice Wikipedia –  fu il più grave incidente industriale della storia di New York. Causò la morte di 146 persone, 123 donne e 23 uomini, per la maggior parte giovani immigrati italiani ed ebrei. L’evento ebbe una forte eco sociale e politica, a seguito della quale vennero varate nuove leggi sulla sicurezza sul lavoro e crebbero notevolmente le adesioni alla International Ladies’ Garment Workers’ Union, oggi uno dei più importanti sindacati degli Stati Uniti.”

Muscarella, un grande uomo, generoso e di buoni sentimenti, prima ancora che un bravo scrittore valorizzatore della microstoria, racconta, appassiona e commuove il lettore, condotto ad assecondare le sue non nascoste simpatie, “di parte”, per le vittime delle disuguaglianze e dei soprusi.

Ed ecco la scena forse la più crudele del romanzo, quella in cui Don Vicinzinu, il farmacista, il giorno di Menzaustu (Ferragosto), in Piazza, davanti al Sagrato della Chiesa Madre, aggredisce Maruzza, colpevole solo di non essere riuscita a impedire alla figlioletta Pinuccia (quella che poi a New York si chiamò Josie e perse la vita nell’incendio) e al fratellino Vincenzo di farsi avvicinare dalla nonna all’uscita dalla Messa:

      “Raggiunta la moglie sui gradini, Don Vicinzinu lanciò il bastoncino da passeggio, per avere le mani libere e, mentre la fulminava con gli occhi, afferrò per un braccio i due nipoti mai riconosciuti, già tremanti per l’incomprensibile agitazione, strappandoli dalla sua stretta.
Vincendo la loro debole resistenza, quasi trascinandoli, cercò di condurli a lunghi passi verso il centro del sagrato dove Maruzza, accortasi dello strano movimento, non vedendo Pinuccia e Vincenzo accanto, si stava guardando attorno per cercarli.
I più vicini a Maruzza, quasi intuendo le intenzioni malsane dello speziale, fecero largo al suo sopraggiungere perentorio, permettendo così a Don Vicinzinu, con i due nipoti scalpitanti trattenuti a stento per mano, di trovarsi di fronte alla nuora, impietrita dalla sorpresa. Con Rosellina adagiata su un braccio, Maruzza si fece avanti per soccorrere i figli, ma se li vide quasi spingere addosso da un plateale gesto di disprezzo accompagnato da un’altrettanta dose di sprezzanti parole, quasi gridate:
     – Maruzza Cappone, chisti sunnu figghi ca appartennu a ttia e a to famigghia, a mmìa nun mi vennu nienti e ti la ttie‐ niri a to casa. E t’u dicu ccà davanti a tuttu u paisi, chista è l’ultima vuota ca cu a scusa di sti carusi cerchi d’avvicinàriti a me famigghia. Tu e tutti vuautri nun n’aviti nienti a cchi spàrtiri cu a famigghia Castello.
E continuò, sempre più esagitato:
     – E puoi, n’autra cuosa: è inutuli ca cerchi di fàriti piatusa cu dda povera fissa di me mugghieri Giuseppina e di me figghia Mariannina, a mia nun mi pigghi pi minchia, finu a quannu campu ìa, nè tu né i to figghi mettiriti un peri dintra a me casa.
Infine, si tolse platealmente la coppola e sbattendola per terra sentenziò:
     – E s’avvissi a pèrdiri u me nomu!
Maruzza, come colpita da na nirbata, si piegò in due a proteggere i suoi figli e a raccoglierli a sé  poi con lo scatto dell’orgoglio ferito si drizzò in piedi, alzò la testa, fece pochi metri e afferrò la spalla del suocero che, raccolta la coppola, stava tornando su suoi passi. Lo guardò fisso negli occhi e gli fece capire tutto il suo disprezzo; poi, ingoiando le lacrime, tra un singhiozzo e un grido strozzato gli ribattè:
     – Don Vicinzinu Castello, vassia u sapi ca sti picciriddi, ca dici di nun canùsciri, sunnu i figghi di so figghiu Cicciu. I taliassi buonu picchì chista è l’ultima vuota ca i viri, picchi puru si murissimu tutti di pitittu nta so casa nun ci passamu mancu di luntanu. Vassia si tinissi u so nnomu e tutti i so ricchizzi, ìa mi tegnu i me figghi, ca sunnu i figghi di me maritu Cicciu e tutta a me vita!
     Don Vicinzinu, liberandosi con uno strattone dalla presa e aggiustandosi il bavero della giacca, con un ulteriore gesto di disprezzo la ignorò con un sorrisetto beffardo.
Maruzza, attorniata e protetta dai quattro figli confusi e afflitti, mentre in maniera risoluta imponeva a Pinuccia di non piangere e si asciugava le sue di lacrime, incrociò gli sguardi dei tanti paesani che, un po’ trasecolati e un po’ divertiti, avevano assistito all’increscioso e non ordinario intermezzo.
Non vide dispiacere, non vide rabbia, non occhi solidali, ma solo sguardi sfuggenti, sguardi vigliacchi, una sottile vena di invidia, una perfida soddisfazione, una non confessata riprovazione per chi se l’era voluta.
Si aspettava solidarietà, si aspettava indignazione nelle loro facce. Invece, quei suoi compaesani, su quel sagrato avevano scelto. Avevano scelto di non scegliere, ligi alla loro atavica indifferenza, al fatalismo di chi pensa che le cose vadano come sono sempre andate. Ancora una volta, avevano accettato la prepotenza e la discriminazione, avevano scelto la convenienza e l’opportunismo.
Maruzza, fra tanta folla, si sentì sola e abbandonata. Si rese conto che, fra quella gente, per lei e i suoi figli non ci sarebbe stato mai posto per una vita dignitosa. I paesani non le avevano ancora perdonato la sua intraprendenza, il suo ardire nell’avere afferrato e colto un pero proibito. Era un’estranea tra la sua gente.
Alzò gli occhi verso la facciata della Matrice e fissò la croce sulla sommità, segnandosi. Fra sé e sé fece un giuramento solenne in suo nome: avrebbe portato via i suoi figli da quel paese, sarebbe partita per non tornare mai più.”page253image28192960

 

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